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Appendici Documentarie
Il territorio antico di Gragnano e l’Ager Stabianus

-Diploma su lastra di bronzo ritrovato a Gragnano in cui l’imperatore romano Claudio concede nell’anno 52 d.C. la cittadinanza romana al soldato Spartaco, figlio di Dionisio:

CLAUDIUS CAESAR AUGUSTUS
GERANNICUS PONTIFEX MAXIMUS
TRIB. POTESTAE XII. IMP. XXVII
PATER PATRIAE CENSOR CON. V.
TRIERARCHIS ET REMIGIBUS QUI MILI-
TAVERUNT IN CLASSE QUAE EST MISENI
SUB. TI. JULIO AUGUSTO LIB. OPTATO ET
SUNT DIMISSI HONESTA MISSIONE
QUORUM NOMINA SUBSCRIPTA SUNT
IPSIS LIBERIS POSTERISQUE EORUM
CIVITATEM DEDIT ET CONNUBIUM CUM
UXORIBUS QUAS TUNC HABUISSENT
CUM EST CIVITAS IIS DATA AUT
SI QUI CAELIBES ESSENT CUM IIS
QUAS POSTEA DUXISSENT DUM
TAXAT SINGULI SINGULAS

A.D. III IDIS DECEMBRI
FAUST. CORNELIO SVLLA FELICE COS
L. SALVIDIANO RUPO SALVIANO
GREGALI
SPARTICO DIUZENI F. D. PSCURTO
BESSO
DESCRIPTUM ET RECOGNITUM EX TABULA
AENEA QUAE FIXA EST ROMAE IN CAPI-
TOLIO AEDIS FIDEI POPULI ROMANI
PARTE DEXTERIORE

(nella parte posteriore, vi erano incise le seguenti parole):

L. MESTI L.P.
E. NUTRI
DIRRACHINI
C. SABINI
C. CORNELI
T. POMPONI
N. MINI HJLAE AEM… PRISCI DIRRACHINI
VENUSTI DIRRACHINI
ANTHI DIRRACHINI

N. MEDINI DIRRACHINI
AMPLIATI DIRRACHINI
EPAPHRODITI DIRRACHINI TESSALONI CENSES
( Il bronzo è conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Riportato da A.Liguori., da B. Capasso, pag. 7 e dal Cardinale, pag .54 in Diplomi Imperiali).

LAPIDI RINVENUTE NEL CIRCONDARIO

– La più importante delle lapidi rinvenute nel territorio di Gragnano e dintorni, è quella di Sant’ Antonio Abate, avvenuta nel 1931 nel fondo di Carmine Sullo, nei pressi dell’antica chiesetta di Sant’Antuono, oggi Congrega dell’Immacolata. Qui esisteva forse una villa o un raggruppamento di case, come fa supporre anche il rialzo della quota stradale in quel punto, e le murature in opus reticolatum proprio nelle fondamenta della Congrega, tuttora visibili nel locale sottostante, “scolatoio” per i defunti.

HOSPES STE NISI MOLETU ST
PERSPICE MONUMENTUM OD
SIBI UB US PUBLI GRANIUS
SIBI ISQUE VIVOS FECIT
EUHODUS TURARIUS
SALVE – VALE

In questa lapide c’è forse la soluzione sull’origine del toponimo Gragnano, derivante cioè dalla famiglia romana Grania, ma di cui mancavano prove dell’esistenza sul nostro territorio.

Publio Granio che compare nella lapide era un commerciante di incenso. Le nostre supposizioni si richiamano invece all’importante ramo della famiglia presente ad Ercolano, di cui esistono numerosi riscontri, anche sulle forme di pane fossilizzate, rinvenute con impresso i sigilli della famiglia, a dimostrazione che erano realmente commercianti di grano e impegnati nella produzione del pane, da cui deriverebbe il loro nome. La lapide è comunque un supporto importante alla tesi.

Ulteriori notizie sono riportate in “Il territorio antico di Gragnano e l’Ager stabianus”. La lapide andò dispersa negli anni ’50, ma la prova della sua esistenza è una foto che abbiamo rinvenuta in un opuscolo degli anni 40 dell’archeologo Degassi.

– Bartolomeo Capasso, in Storia di Napoli, Vol.II. riporta poi una lapide, oggi non più esistente, che si trovava nella chiesa di Santa Croce a Castellammare di Stabia :

D. M. CECILIAE LIBERALI CONIUGI
PIETISSIME AC DE SE BENE MERITAE
A. GRANAUS EPAPHRODITUS

Gli archeologi che la esaminarono de visu, come il Renesio e il Capasso, ritennero che Granaus dovesse leggersi Granius.

– F. S. Liguori nel suo testo del 1865, ne trascrive un’altra, purtroppo non ci dice dove fu rinvenuta:

D.M. NEVIO AMBLIATO QUI VIXIT
VIGINTI ANNOS ET MENSES DECEM
AURELIUS MAXIMUS FRATI DULCISSIMO P. U.

– L’ 11 dicembre 1749, sulla strada di Gragnano, nei ruderi di una villa furono fatti alcuni dei più interessanti rinvenimenti archeologici: in una nicchia si rinvenne un busto di marmo bianco di una giovane donna, che alcuni hanno identificato per la principessa imperiale Livia. Abbiamo ritrovato il busto negli archivi fotografici del Museo archeologico Nazionale. Ha una fisionomia ridente, coi capelli ricciuti raccolti in una retina sul collo ed adornata nel mezzo della testa da una vitta o fibula.

Un paio di giorni dopo, proseguendo negli scavi si rinvenne, posta su una nicchia-larario, una lapide rettangolare lunga circa un metro e mezzo con una scritta in caratteri rossi.

Anche questa lapide abbiamo riscoperta negli archivi del Museo di Napoli e come per il busto di Livia, ne abbiamo riprodotto l’immagine inedita:

ANTEROS HERACLIO SUMMAR
MAG.
LARIB. ET FAMIL. DD

Si tratta di un reperto importantissimo che ci permette di far luce sull’organizzazione amministrativa del territorio, dopo le distruzioni della guerra sociale (89 a.C.).

Anterote Eracleone, era o erano, magistrati sommi, liberti, che venivano eletti tra gli abitanti plebei dei locali pagi o vici. Le loro attribuzioni erano la conservazione dei documenti del villaggio, la riscossione delle tasse, la pubblicazione degli ordini imperiali, la presidenza delle feste e la cura del decoro dei pagi stessi.

– Bartolomeo Capasso in Memorie della Penisola Sorrentina, ci descrive una lapide in marmo, con due iscrizioni, posseduta dalla famiglia di Marino di Gragnano :

CLODUS FILUMENUS FECIT SIBI ET CLODIAE BLASTE
CONIUGI SUAE ET LIBERTIS LIBERTABUSQUE SUIB
POSTERISQUE EORUM ET M. CLODIO OPTATO ET CLODIAE
ATTHIDI CONLIBERTAE

—————————
L. TERENTIUS LAMPER FECIT SIBI ET TERENTIAE
MUSAE CONIUGI SUAE ET L. TERENTIO VENUSTO F. ET
TERENTIAE PAULLAE LIB. SUAE ET LIBERTIS LIBERTABUS
POSTERISQUE SUIS ET EORUM QUI
SUPRASCRIPTI SUNT

– Interessantissimo anche il rinvenimento avvenuto nel chiostro del monastero degli Agostiniani scalzi di Gragnano, dove fu rinvenuta un’urna cineraria di marmo a doppia curvatura rappresentante un trono di colonna, decorato da ventidue strie baccelliforme, con in mezzo una tabella senza cornice, con incisa l’epigrafe:

D. M
P. MINDI
FAUSTI

La tabella era anche decorata con un altorilievo rappresentante due fatiche di Ercole:
A sinistra si vedeva un albero, con Ercole che combatte con un leone, a destra un altro leone ritto in piedi e una clava in mano ad un altro Ercole che però non compare in quanto la tabella era spezzata proprio nel mezzo di quest’ultima azione.
(La descrizione completa è riportata negli Atti dell’Accademia dei Lincei, serie IV, vol.IV, Part.II).

– Monumento funerario di M.Virtius Ceranus, rinvenuto in proprietà Pellicano a Gragnano, area del Ponte di san Marco.

L’iscrizione, posta su un grande altorilievo ornato di figure, ci fa sapere che i decurioni di Nuceria offrirono a Ceranus il duumvirato gratuito per le sue benemerenze verso il popolo.

L’iscrizione conferma la soppressione delle magistrature locali seguite alla dura sconfitta da parte di Silla nella guerra sociale. Stabiae e il suo ager, furono ridotte a pagus, dipendenti amministrativamente dalla fedele Nuceria, e la popolazione aggregata alla tribù Memenia.

L’iscrizione è ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

– Iscrizione trovata presso il tempio del cosiddetto Genius Stabiarum, localizzato probabilmente nell’area dell’antica chiesetta di Santa Maria delle Grazie, ed è ancora una prova della dipendenza del territorio da Nuceria. Fu infatti proprio il nocerino Caesius Daphnus a fare eseguire i lavori della riattazione del tempio dopo i danni del terremoto del 62 d.C., preludio dell’eruzione del Vesuvio del 79.

D. D.
IV CAESIUS DAPHNUS
VETUSTAM AEDEM GENI STABIAR
LABANTIBUS MARMOR IB VEXATA
PROVDE RESTITUIT

Ancora dagli Atti dell’Accademia dei Lincei, consultabili presso la Biblioteca della Soprintendenza di Pompei, è riportato il rinvenimento avvenuto durante la costruzione del ponte che porta dalla Stazione Ferroviaria a via Roma in Gragnano. Furono rinvenute cinque grosse tombe in tufo, in forma squadrata a parallelepipedo, che contenevano ancora gli scheletri umani con vasi, piccoli vetri colorati e oggetti in metallo. Il materiale andò disperso e quindi non possiamo risalire a quale epoca appartenessero le sepolture, mentre i grossi manufatti furono riutilizzati nelle fondamenta del ponte!

– Descrizione delle 5 Ville rustiche romane, scoperte nella seconda parte del settecento dagli scavatori borbonici, spogliate di quanto rinvenuto e ritenuto di un qualche valore e reinterrate. Purtroppo si sono perse le tracce della loro attuale collocazione.

Le prime 3 descrizioni sono tratte da Reich, Dizionario delle antichità greche-romane, Appendice a cura di Giuseppe Fiorelli. Il testo è reperibile presso la Biblioteca della Soprintendenza di Pompei.
Volume II, da pag. 424 a 432; le altre due sono di Giuseppe Cosenza, Stabia, Trani 1907, pag. 255.

I Villa – FIORELLI
La villa fu scoperta all’Ogliaro (nota del red.: Ogliaro è il nome anche attuale di un’area a strapiombo sulla sinistra orografica del torrente Vernotico, ricco di ritrovamenti archeologici), dal 4 gennaio al 2 aprile 1779, ed ebbe la medesima particolarità di stare in mezzo ai campi coltivati, sulle pendici di un colle a Gragnano.
Le carte del tempo dicono che si scoprì colla zappa: che vari dei mattoni con cui era costruita portavano il bollo L. Vasilli, che si lesse pure in altre tegole di Ercolano; che le altre celle stavano tutte disposte in modo da rimanere l’una appresso all’altra, con le aperture sotto un portico che le precedeva, sorretto da pilastri; che l’edificio era manifestamente addetto alla fattura dell’olio.
Nè altri han fin qui notato una particolarità che s’incontra solo in questa villa, e che spiega assai bene un luogo non bene compreso dei rustici. Essa consiste in questo, che, lasciato a manca il torcularium, la cella olearia, il sito ove radunavasi la famiglia, veniva poi il l’horreum, e giunti al trapetum, vi si trovava solo l’infrantoio e, quasi al centro della medesima cella, un poggio o base rotonda di fabbrica, alta palmi 2 2/3, con parte del pavimento della stanza rinchiusa tra due piccoli risalti di fabbrica ad angolo retto. Questa specie di vasca, col fondo lievemente inclinato verso il labbro, metteva termine in una doccia di terracotta, che dalla parte di fronte con poco pendìo scendeva in un seno, ove raccolto il liquido che vi conduceva questo canalicolo, poteva togliersi agevolmente mercè un orciuolo di creta, che fu trovato in piedi sul grosso del risalto del sito.
Gli accademici ercolanesi, che ebbero sotto gli occhi questa pianta, e che non erano riusciti a determinare quale fosse il serbatoio delle ulive in una villa, non si avvidero che tale specie di vasca, nella cella del trapetum, doveva essere appunto il serbatoio, e che quel podio di fabbrica aveva servito per reggere qualche tavola di legno, tabulatum, sopra cui si disponevano le ulive già colte.
Le celle seguenti, cui si accedeva dal portico per tre gradini, spettavano al bagno e contenevano lo spogliatoio, l’apoditerium, ed una stufa, laconicum, in cui era situato un bagno di fabbrica; il suo pavimento era di tegulae hipedales, poggianti sopra il pilae di argilla, nel modo indicato da Vitruvio( Lib. V Cap. II Tom I pag 307). Noterò che nella culina, col pavimento di terra ad intonaco bianco, erano quattro gradini che davano al praefurnium e, poco discosto, la bocca della cisterna, nella quale di raccoglievano le acque del tetto, mercè un lungo canale di fabbrica addosso alla parete esterna del muro. Inoltre il furnus ed altre stanze, molto rustiche che potrebbero chiamarsi ergastola, e forse anche una di esse contenente la sella, terminava da questa parte dell’edificio che sembra avesse avuto la lunghezza di palmi 104 all’incirca.
A destra dell’ingresso era il cubicolo con una uscita separata su una area con lastrico di mattoni infranto, sostenuta da un piccolo muro che la divideva dal rimanente terreno coltivato: può reputarsi l’abitazione del villico ovvero del padrone della villa che non fu certamente uomo di illustri natali.

II Villa – FIORELLI
Un’altra villa fu pure scavata in Gragnano, nel luogo appellato Sassola, dal 4-10 al 4-11-1762, e dall’ 8 luglio 1780 al 30 gennaio 1781.
Sorgeva questo edificio sovra un’area di poco di poco più di cento palmi quadrati, in mezzo ai campi, avendo a sinistra una gran porzione di terra murata, a destra e alle spalle altri terreni lavorati a solchi; nel dinanzi passava la via che conduceva al fondo, cioè quel vicolo per cui solo era lecito di transitare ai carri, larga non meno di otto piedi in porrectum e sedici in anfractum, che menava all’ingresso principale della villa. Nulla sapendo delle sue chiusure, né delle soglie, dal nudo esame della pianta, può dirsi che essa non fu fabbricata a tal uso, e che quella sorta di vestibolo inter foras domus et viam fu dapprima una stanza, e venne poi ridotto a servire d’ingresso, per l’ingrandimento del fabbricato.
Dal vestibolo o specie di androne, si passava in un portico tetrastilo con un pavimento di mattoni pesti e colonne di pietra vesuviana senza base e baccellate, poi rivestite d’intonaco, bianco nel di sopra, e rosso fino a un terzo della loro altezza; sotto questo peristilio erano disposti quattro cubicoli, tre con un piccolo finestrino sulla via ed il quarto, la cui parete destra toccava quasi due delle colonne del portico, teneva una finestra più ampia sporgente sull’area o corte interiore.
Fu questa la parte della urbana villa che servì di abitazione del pater familias ; essa era del tutto separata dal rimanente della villa, tal che per passare in qualunque delle sue cellae faceva d’uopo uscire allo scoperto fuori del peristilio.
A parte rustica e la fructuaria, collocate sul lato postico della corte, erano parimenti precedute da un portico sorretto da sei colonne, simili alle precedenti, l’ultima delle quali, rafforzata con fabbrica, era addossata al muro a guisa di pilastro angolare, pila angularis; ed un altro pilastro a sostegno del tetto pericolante, erasi elevato tra la quarta e la quinta colonna. Sotto questo secondo peristilio l’ingresso delle cellae e nel sito indicato nella pianta stava una edicola, cioè una piccola nicchia, con due colonne e frontone, ove era situato, a tutela della casa, il domestico lare laris familiaris.
Tutto il muro degli ingressi era coperto di rozzo intonaco, senonchè al lato della nicchia stavano dipinti due di quei grossi serpenti, custodi del luogo, uno da ciascun lato.
La prima apertura, che s’incontrava in questo secondo peristilio, metteva in una grande stanza, preceduta da due scalini, alta due palmi dal piano della casa, che tenendo il pavimento di fabbrica ebbe anche le mura coperte d’intonaco ordinario. Essa è la culina, che nelle villae richiedevasi magna ed alta affinché si allontanasse il pericolo dell’incendio.
Una sottoposta cisterna, di cui si trovò il puteale di terracotta, obbligò d’innalzare il pavimento di questa stanza, che per mettersi in comunicazione con le altre contigue, era fornita di due gradini innanzi a ciascuna delle sue tre uscite. La seconda apertura introduceva nelle cellae dei servi, che con la precedente avevano in prima servite per bagni, essendosi trovati i pavimenti di musaico e pitture distrutte, e nell’ultima né pavimento né intonaco; ma vari indizi di suspensurae e di rivestimenti di marmo, da gran tempo tolti via via dal loro posto, essendo anche per la costruzione molto simile ad una concamerata sudatio. Allorché questa parte della villa fu addetta ad altri usi, in una di queste stanze venne costruito un beveratoio o semipiscina, capace di poca quantità di acqua; la qual cosa, congiunta alla mancanza di altro lacus e al non trovarsi, in tutta l’edificio, bubilia né tabula, persuade che niuna mandra qui dimorasse la notte e che, tranne i pochi domestici, non possedesse altri animali il padrone del fondo.
La terza apertura dava adito ad una stanza angusta ed oblunga, col pavimento di mattone pesto e le mura con intonaco di polvere di mattoni, avente un finestrino ed un incavo nel muro di prospetto; il primo che guardava sulle adiacenti campagne, il secondo per contener un candelabro. Nel dinanzi eravi una scala di legno, con tre soli gradini di fabbrica, che dava in un piano superiore consistente di due sole stanze, cioè di quella che vi corrispondeva a perpendicolo e di un’altra sovrastante alla stanza segnata nella pianta col numero 15. Credo che questa fosse l’abitazione del procurator villae e quella terrena del villicus. Ivi, fra gli oggetti rinvenuti, caduti dal piano superiore, si raccolse una tegola col bollo NIMAD, in lettere osche e retrograde, il cui prenome Marius è gentilizio.
La quarta apertura, che mette nelle due cellae, appartiene all’horreum, ove si custodivano gli istrumenti, il quale doveva trovarsi prossimo alla abitazione del procurator e del villicus; esse avevano rozzo intonaco e pavimento di lastrico battuto.
Qui ha termine la parte rustica della villa e segue la fructuaria, consistente di due membri, cioè della cella vinaria, rozzamente intonacata ancor essa, col pavimento di lastrico ed un vano a guisa di finestra, ove si raccolsero molti vasi vinari di bronzo e di terracotta, bicchieri di vetro, un candelabro e qualche lucerna; e del torcularium, avente al loro posto i forami degli stipites, quello dei due arbores, uniti in una sola trave, e le fossicelle o pozzi, per le quali si discendeva nel sottoposto sotterraneo, onde assicurare l’immobilità delle colonne.
Rimaneva del pari distinta l’area oforum in cui pigiatasi l’uva, col piano inclinato verso il canalis, dove scorreva il liquido per passare nei grandi dolii di terracotta; e nel labbro, orlo o margine che dir si voglia, presso l’indicato canale, eravi un foro, dentro cui ritrovarono i frantumi di un bastone di legno, il quale forse servì a tener legata con una cordicella qualche fistola di piombo, immessa nella estremità del canale per condurre il liquido là dove erano i dolii, non altrimenti di quei tubi fictiles di cui parla Palladio.
Noterò, in ultimo, che il pavimento dell’area e quello della cella torcularia erano composti di mattoni franti e calcina, e che simile intonaco rivestiva le pareti fino all’altezza di circa palmi sette, ove una larga zona dipinta di rosso ne segnava il limite superiore; oltre il quale tutto era imbiancato. Solo nel sito della parete si trovò un dipinto, che fu tagliato e portato a Portici il 27 gennaio 1781, ed ora vedesi al Museo Nazionale (N° 9274), pubblicato con la erronea indicazione di pittura ercolanense (R .Museo Borbone Tom. XI Tav. XXII). Rappresentava Bacco coronato di pampini, che ha sulla destra un corno da cui versa il vino e nella sinistra un tirso, tenendo a lato Sileno che suona la cetra ed a diritta un satiro inghirlandato e coperto di negride, che reca nelle mani un grosso grappolo di uva nera ed il pedo; gli sta alle spalle una ninfa dionisiaca, che rattiene sugli omeri al nume il manto, che pare cadergli, ed ha la testa cinta di edera.
A sinistra, ed un poco più innanzi di questo gruppo, vedesi una tigre, avvinta nel mezzo del corpo da un serto, lambire in terra il vino versato dal dio; tutto il quadro è chiuso da tralci carichi di uva, che sorgendo da entrambi i lati s’innalzano e poi ripiegano sulle teste delle figure a modo di pergola. Questa composizione era in prima più completa e faceva bella allusione alla cella torcularia in cui stava dipinta, poiché, oltre le viti, vi si vedevano due geni, uno da ciascun lato, il primo in atto di raccogliere gli acini di un grosso grappolo pendente dall’alto, il secondo a riporli in una corba; ma la sua conservazione non permise di tagliarsi per intero.

III Villa – FIORELLI
Il terzo edificio si trovò nel fondo, che un tempo la Cattedrale di Stabia possedeva in Gragnano, nel sito detto Medici, nel quale essendosi iniziati gli scavi, dal 3 settembre 1781 alla metà dell’anno seguente, fu scoperta una villa che aveva in fronte palmi 109, in agro palmi 63, senza tre compresi esteriori aggiunti di palmi 980, in tutto occupava un’area di palmi quadrati 7847.
Vi erano due ingressi, l’uno ampio e sulla fronte principale dell’edificio, l’altro più angusto e nel m uro opposto, posticum, donde si usciva ai campi, e per cui avevano ingresso nella corte gli agricoltori e le mandrie; essi erano custoditi da cani vivi e veri, che di giorno si tenevano a catena, scelti nella razza degli alani negri.
Entrando, dunque, nella villa, incontratasi prima d’ogni altro un portico, esastile, sorretto da colonne di mattoni, ch’erano unite fra loro mercè un pluteo di fabbrica, al pari di quelle rivestite d’intonaco e dipinte di rosso. Questo sito era destinato agli otri.
Una delle singolarità di questa villa consiste nell’aver avuto sulla via una taverna vinaria, che comunicava col portico per mezzo di tre gradini di fabbrica, mentre le ville rustiche abitualmente n’erano sprovviste.
Che questa sia stata poi una taverna vinaria si apprende da che vi si trovarono due dolii di terracotta di mezzana grandezza coi loro coperchi infranti, nei quali si vedevano ancora le orme lasciatevi dal vino, forse prodotto precipuo del fondo. Essi erano alti palmi tre, col ventre rilevato e la bocca molto larga.
Oltrepassata la prima scala, per la quale si scendeva nella taverna, incontratasi la cella vinaria divisa in due stanze, entrambe col pavimento di mattoni e le mura imbiancate; nell’una si trovarono i grandi dolii del vino; nell’altra, moltissimi frammenti di vasi vinari di vetro e di terracotta, e fra essi quattro interi e di belle forme, collocate su di un masso di fabbrica a guisa di poggio.
Altro membro di questa villa fu il torcularium, che rimaneva a destra della porta d’ingresso, notevole per avere nel sito del locus un grande dolio interamente sotterra, e solamente con la bocca sul piano della stanza. Caldo ed illuminato nell’area per una larga finestra aperta ad oriente, era non meno comodo e spazioso nel sito da riporre l’uva ed i vasi col mosto, poiché lungo oltre 30 palmi e largo 15, avente un lato interamente scoperto con due colonne, che sostenevano l’ala del tetto.
Tra le due colonne, simili alle altre, correva un podio, il quale in un sito conteneva la bocca della cisterna, donde attingevasi l’acqua che, serbata nel grande dolio ed in una vasca, fluiva nel canale, pure di fabbrica, in cui si abbeveravano i polli, ospiti ordinari di ogni villa. Un’altra riserva di acqua, detta più propriamente piscina, stava in un angolo della corte e serviva per le pecore e per gli animali, mentre nella vasca si lasciavano macerare i vimini e i lupini e quant’altro occorreva agli usi domestici.
Tornando al torcularium, si avverte che ivi d’appresso era situata la culina col burnus e la sella o latrina; e che congiunta alla culina era un’altra cella vinaria divisa in due stanze habentem ad septentrionem lumina fenestrarum, perché qualora vi si fosse intromesso il sole, il vino sarebbe divenuto torbido e guasto; le quali stanze meglio si addimandarono apothecae. Incerto rimane l’uso delle due stanze N.15 e 16 della pianta : una di esse forse sarà stata la cella corticale o cella defrutaria. Da queste celle si passava alla apotheca, ove i frutti stavano riposti su un letto di paglia.
Di fronte al torcularium, e proprio sul finire dle peristilio, stava una grande stanza col pavimento Signino e le pareti a fondo scuro con fasce verdi, fronde e fiori dipinti; aventi di sotto uno zoccolo giallo con strisce rosse, nella quale, oltre a molti arnesi di bronzo, si raccolsero due trullae con lavori d’argento, una tazza, un campanello e un’accetta di ferro; e ne seguiva un’altra più piccola con finestrino a modo di feritoia, da cui potevasi vigilare uno dei due ingressi della villa, essere chiamato dal campo e far intendere la sua voce. Camera, dunque, di riposo e di sorveglianza.
Addossato all’edificio, ma con ingresso separato ed esteriore, trovatasi uno di quei magazzini repositiones di cui parla Vitruvio, che non avendo nessuna comunicazione col resto del fabbricato, teneva l’intonaco e il pavimento assai ordinario, con un vano nella parte a sinistra, in cui stavano inseriti diversi ordini di tavole a guisa di armadio.

IV Villa – COSENZA
Importantissime quanto le precedenti sono le altre due ville, una rustica e fructuaria e l’altra rustica semplicemente, scoperte nella proprietà appartenente una volta al monastero di San Michele in Gragnnao, ora villa Trifari, alla contrada detta Casa di Miro.
Erano site in mezzo ai campi. Lo scavo della prima di queste ville, eseguito dal 28 ottobre 1779 al 29 aprile 1780, procedette con molto ordine diretto da Vega.
Il vestibolo, con pavimento di pietra battuta, aveva sul fronte tre colonne rivestite, insieme al muro, di tonaca bianca; una scaletta portava alla stanza del procurator villae che sovrastava l’abitazione del villicus. Qui furono trovati, fra molti e diversi oggetti, parecchi indubbiamente caduti dal piano superiore, alcuni finimenti per cavalli, due zappe, un piccone e due zanne di cinghiale forate, adibite forse contro il fascino, la cui superstizione era grande presso gli antichi.
Attorno ad un cortile di modeste dimensioni, che aveva peristilio e due colonne nel centro,- ove si rinvennero due mortai di travertino in pezzi, uno dei quali con lettere sul labbro – erano, fra molte stanze in giro, cinque cellae col pavimento di calcinaccio e mura d’intonaco bianco; qui, tra gli oggetti rustici fu rinvenuta una ronca, parecchi vasi di creta e di bronzo ed alcune monete.
Presso era l’horreum, luogo ove si riponevano gli utensili campestri durante il riposo, contenente una pala, un rastrello, una ronca di ferro ed un vaso a forma di caldaia con manico e fascia di piombo, conservato al Museo al N. 74711.
Due passaggi, fauces, con intonaco dipinti di nero, immettevano da un lato in un cortile rustico, con pavimento di calcina, avente in un angolo un pozzo ed una vasca di fabbrica; e dall’altro lato nei bagni composti del tepidarium, col pavimento bianco fasciato di nero e mura dipinte a fondo bianco con fasce rosse, e della stufa, in parte ruinata, con le suspensurae.
Sul cortile precedente le fauces si trovò un vaso di creta a vari scompartimenti, usato per ingrassare i ghiri, ghiotto cibo dei crapuloni romani. Un bel triclinio, situato verso l’altro lato del peristilio, grande, rettangolare, con finestre e davanzali di marmo, e pavimento di lastrico a color rosso, conteneva moltissimi minuti oggetti, tra cui una lastra dipinta con maschere a miniatura ed un pezzo di vetro a forma di vasetto striato con appiccagnolo (Museo N. 13655-Vetri). Accanto eravi una stanzetta, cellarium, con finestra sul vestibolo, presso cui, al di fuori, si rinvenne un grande dolio di creta. La colina, esistente dietro al triclinio, era magna et alta e da essa vennero fuori, fra molti oggetti di cucina, cinque vasi affumicati, un vaso di ottone di finissimo lavoro (Museo N. 68832 br.fer.), una gabbia di ferro rotta in più parti (Id.79258), piatti ed ampolle di terracotta e di vetro, un mortaio, il piede di un vaso di marmo, forse antecedentemente sottratto, con tavola di marmo portasanta e sette pesi con numeri incisi.
La parte più nobile di questa villa era il peristilio, quadrilungo con venti colonne ottagone di stucco bianco, solaio di terra e lastrico sotto sl portico, composto di frantumi di marmo nero sparsi di stelle bianche. Un canale di pietre vi girava intorno, ed un podium, dal pavimento di mattoni pesti, presentava il fondo con dipinto dei pesci natanti nell’acqua marina. L’intonaco del muro, che circondava il cortile, aveva zoccolo rosso scuro a riquadri bianchi e rossi con li stelli dello stesso colore più carico. A sinistra di questo peristilio due stanze, con finestre al di fuori, presentavano pavimenti di mattoni pesti colorati in rosso, e alla parete intonachi con zoccolo rosso e riquadri a grotteschi, paesaggi e teste di uomini. Seguiva subito la cella olearia, spaziosissima, con entrata dal peristilio ed uscita sull’aia posteriore, situata insieme alla cucina, a mezzogiorno, verso la parte più calda del cielo.
In questa cella – ampiamente descritta dagli ercolanesi nel volume delle lucerne e candelabri ove fu riportato anche il disegno – non mancava l’infrantoio di pietra vesuviana, il trapetum ed il torcularium.
Una grande aia di terra, dietro il lato sinistro di qusto edificio, era circondata di mura traforate con saettiere e coperte di intonaco bianco. Essa era contigua alla villa, tre volte lunga che larga, alta sei palmi sul terreno a ridosso, sostenuta da barbacani, e con pavimento di terra che al tempo della mietitura si induriva, passandovi sopra sassi o colonne, o facendovi correre gli animali.
Il cancello, che serviva a renderla ventilata e riparata per gli armenti, è stato qui sostituito da un muro con strette feritoie.
Dietro al cortile rustico, cohors, era un muro con piano di terra, certamente l’hortum o pomarium, che serviva a completare le parti.

Nota del Liguori, che riporta da B. Papasso, Memorie della penisola sorrentina, pag.115:
La scoperta di questa villa ebbe anche una importanza pratica in quanto influì sulle condizioni olearie del regno, perché all’esempio dell’infrantoio ivi trovato, s’introdussero dei miglioramenti nella macchina, che a tale oggetto si adoperava allora nel napoletano.

V Villa – COSENZA
Questa villa si scoprì dal 2 giugno al 29 dicembre 1778, ed è comunemente conosciuta col nome di casa del filosofo a causa della bellissima corniola di forma ovale, trovata nel 7 novembre del 1778, rappresentante, intagliato, il busto di un filosofo coll’indice in alto in atto di disputare, e di esecuzione, se non gentile come il cammeo della Venere, più viva e ardita (Museo N. 27124 ogg.prez.).
È singolare in questa villa il cortile, interamente aperto verso la strada, con portico a destra e sul fronte, composto di colonne striate rivestite di stucco, e con cripta verso il lato di mezzodì.
Sulla entrata eravi un’ara di tufo, e sul lato destro un pozzo d’acqua sorgente.
Sul fronte del cortile si trovava la parte meglio decorata dell’edificio, cioè i bagni. Precedente alla stufa si scoperse l’hipocausis, con mura rustiche traforate in un lato della bocca dell’ipocausto. In un tramezzo, formante una picola stalla, si rinvenne intero lo scheletro di un cavallo; e da un palco, costruito tra il tetto ed il soffitto, oltre parecchi rustici oggetti, venne fuori quel lavoro di terracotta, conservato al Museo al n° 4859 delle terrecotte, della forma di un balaustro vuoto internamente.
A sinistra dell’hipocausis erano l’apodyterium ed il tepidarium, da cui si ricavarono, fra grotteschi sul fondo bianco, due dipinti un po’ sbiaditi (Museo, n° 8675), rappresentanti un piedistallo con una palma e due galli, ed una colonna che versa acqua in una conca.
Né mancavano quindi alcune fornaci di creta per il riscaldamento dell’aria. La stufa, ornata con la massima sontuosità ed eleganza, aveva un bel pavimento di mosaico bianco con fasce nere, raffigurante nel mezzo un delfino attorto ad un timone.
Nel piccolo corridoio che vi dava accesso si trovarono due dei graziosissimi geni del n°9209 del nostro Museo, propriamente quelli con stringili in mano su campo rosso, e la testa di Medusa (N°8842) di grande composizione, ma un po’ danneggiata. Nelle mura della stufa vi erano cornicette di stucco e dipinti grotteschi, donde si tolse il genio in campo giallo (Ed. Mus. 9209), e dall’incasso semicircolare, lo stucco a forma di conchiglia con Venere sulla sommità. Di qui si staccarono gli altri due geni in campo turchino. La bagnarola, rivestita di marmi, aveva per le pareti grotteschi ed ornati, cornici, maschere,animali e due Veneri di stucco.
Le mura ed il suolo erano vuoti per la circolazione del calore.
Queste stanze conservano vasi di terracotta e di bronzo, casse, uncini di ferro e tegami, nonché un lungo condotto di piombo che immetteva l’acqua dell’hipocausis nella stufa. Le tre stanze a sinistra, rustiche e senza dipinti, contenevano molti vasi di bronzi e creta, lucerne, serrature, tazze, un pezzo di candelabro, un ago crinale di avorio con Venere (n° 4800 ogg. prez.) strumenti campestri, zappe, ronche, picconi, accette e coltelli; per cui si può ritenere che una di esse fosse l’horreum.
Sulla estremità sinistra, era il posticum – passaggio per andare nel campo – ed una stanzetta con finestra al di fuori, che aveva accanto il cellarium, e dietro una grande culina con sella, tutte rustiche, in cui si rinvenne una stadera di ferro, col peso a forma di ghianda, ed un bel candelabro di bronzo con piede a zampe di leone, legate con foglie di edera (Mus. Naz. 78463 br.)
Sull’istesso lato del cortile, di fronte alla cripta, si vedeva una filza di cellae, in numero di sei, con uscio di lato, in una delle quali si scoprì la corniola del filosofo. La particolarità di queste cellae consiste nel fatto che le pareti si costruirono, prima che in fabbrica, con assi e tavole, le quali lasciarono sul muro la loro impronta chiaramente visibile.
In questa villa ritrovò pure molto zolfo e pece.